Fiducia primaria e secondaria

Guardate questo bambino, non è meraviglioso il suo abbandono?
Autori diversi chiamano tale predisposizione innata alla simbiosi fiducia primaria (Cavallero) o fiducia epistemica (Fonagy).

La “fiducia epistemica primaria” è definita «l’atteggiamento per il quale il bambino assume un orientamento pedagogico verso la comunicazione ostensiva dell’altro, trattandolo come il depositario di una conoscenza culturale rilevante» (G. Gergely, Z. Unoka,).
In altri termini, il bambino è in grado di individuare quale, tra le diverse figure d’accudimento quella più affidabile nel fornire indicazioni sconosciute. Ciò presuppone la disponibilità a dipendere da un’altra persona, a rendersi vulnerabile, a fidarsi dell’altro.

Già i primi studi etologici dimostrano che la fiducia epistemica o fiducia primaria è innata in quasi tutti gli animali (K. Lorenz).
Se il cucciolo non avesse questa spontanea attitudine a dipendere dall’altro non potrebbe sopravvivere un solo giorno!

É evidente come la fiducia epistemica possa essere compromessa qualora il bambino non individui nel suo ambiente figure affidabili e dal comportamento coerente. La distruzione della fiducia nei confronti della figura di attaccamento (o delle altre figure di attaccamento primario) può generare una sfiducia epistemica generalizzata che impedisce al soggetto di comprendere ed accettare la latente ambiguità dei rapporti interpersonali, di credere a quanto gli viene detto, diffidando degli intenzioni degli altri, a partire dalla credenza che le intenzioni dell’interlocutore siano diverse o comunque discordanti da quelle dichiarate. Di conseguenza i processi comunicativi sono disturbati e l’apprendimento dall’esperienza parzialmente negato dalla mancanza di fiducia nella conoscenza sociale.

Il costrutto di fiducia epistemica ha importanti ricadute dal punto di vista clinico, sia in ambito evolutivo che in diversi quadri psicopatologici in età adulta. Il paziente adulto con disturbo di personalità spesso non si fida degli altri, è ipervigilante, pronto a cogliere i minimi segnali che indicano la violazione della fiducia (ed in tal senso, antiresiliente o con ridotte abilità resilienti); di conseguenza il lavoro clinico, che si basa fondamentalmente sull’alleanza terapeutica, deve tenere questo aspetto in considerazione.

Se è vero che ogni essere umano nasce spontaneamente predisposto alla fiducia verso l’altro, è tuttavia innegabile che una funzione altrettanto adattiva è quella di sviluppare nel tempo la capacità di non dipendere totalmente e di ampliare man mano le aree di autonomia.
Ritornando all’etologia un cucciolo che non impara a leggere i segnali esterni e che considera illusoriamente il mondo un luogo senza pericoli campa assai poco…
Credo che questa metafora possa trovare un senso anche nelle relazioni sentimentali.

Certo si, sarebbe meraviglioso mantenere il privilegio di un rapporto di abbandono totale (tipo quello della foto) anche da adulti: avere una persona che si prende cura di noi come lo fa la mamma (o il papà) col suo neonato, affidarci completamente, non dubitare mai, sentire nel profondo che saremo amati incondizionatamente e per sempre.
Ma proviamo a metterci nei panni dell’altro, sarebbe ugualmente meraviglioso?

Esserci sempre e comunque, indipendentemente da come siamo trattati, dalle attenzioni che riceviamo, dalle strade che si dividono, dalle personalità che si modificano…
C’è qualcuno che sarebbe disposto a un simile atto di abnegazione (i più giovani direbbero a questo “accollo”?)
Probabilmente no. Per i romantici è un brutto colpo, ma forse è giusto così.

Le relazioni si basano su ciò che costruiamo giorno per giorno (come potrebbe essere altrimenti?) e non certo sulle aspettative e sulle idealizzazioni.
La fiducia nei rapporti è fondamentale, ma certo non possiamo chiedere a nessuno (né tantomeno qualcuno può chiederlo a noi) di esserci a prescindere.

Se dovessi pensare a un’immagine che descriva la vita insieme dopo l’innamoramento, alla fine della fase simbiotica, opterei per qualcosa che trasmette nello stesso tempo equilibrio e mutevolezza.

Come questa foto.

Torniamo però al lavoro con i pazienti: come si interviene in psicoterapia rispetto ai problemi di fiducia relazionale?

Fonagy ha proposto, con le persone con tratti paranoidei un modello di relazione terapeutica centrato sull’obiettivo di ribaltare la sfiducia epistemica del paziente, riconoscendo e validando l’agentività del soggetto, ovvero la capacità di rappresentare nel profondo se stesso come agente intenzionale, dotato di sentimenti e di pensieri propri, e di agire intenzionalmente, attivamente e trasformativamente nel contesto in cui è inserito.

Così facendo, il paziente sarà facilitato ad abbandonare quella modalità rigida e schematica tipica dell’equivalenza psichica (in cui non possono essere prese in considerazione prospettive alternative alla propria) come modo di interpretare la propria soggettività e il comportamento altrui e muoverà verso la graduale acquisizione o il recupero dell’abilità di mentalizzazione. Il paziente diviene mano a mano in grado di percepire come significativo e prevedibile l’universo relazionale in cui è immerso. Ciò stimola lo sviluppo della funzione riflessiva e può, nel lungo periodo, ridurre la vulnerabilità generale dell’individuo, dandogli la possibilità di affrontare in modo più efficace e resiliente la complessità della vita sociale.

Nel caso in cui invece il problema del paziente con la fiducia sia di segno opposto nelle relazioni (eccesso di fiducia) l’intervento terapeutico avrà una funzione “destruttrante”.
E’ spesso il caso di pazienti che arrivano in terapia con un problema di dipendenza affettiva: iper-investono nel partner, lo considerano più competente, più abile, più capace di prendere decisioni e per questo finiscono con dargli in mano le “chiavi” della propria vita.
Non mi soffermerò sugli effetti (anche sociali) di una simile tendenza. Da un punto di vista psicologico possiamo dire che l’eccesso di fiducia nell’altro può portare a conseguenze molto pericolose, fino all’annullamento del sé.

L’obiettivo della terapia in questi casi sarà aiutare la persona a riconoscere e valorizzare le proprie risorse. Soltanto quando il paziente avrà acquisito fiducia in sé, consapevolezza nelle proprie abilità riprenderà in mano il volante della propria vita e sarà in grado di disinvestire (almeno parzialmente) nel partner.
Sarà allora possibile rifondare la relazione sulla reciprocità, sul mutuo supporto, ma anche sul gioco (e se si è in due a giocare è più divertente!!!) e sulla possibilità/ricchezza di avere opinioni diverse sulle cose.

Da un punto di vista analitico transazionale questo significa che si passa da una relazione simbiotica in cui il partner dipendente energizza prevalentemente lo stato dell’io Bambino e l’altro gli stati dell’Io Genitore e Adulto ad una relazione in cui tutti gli stati dell’Io della coppia (di entrambi i membri della coppia) possono, a seconda del momento e del contesto, ricevere energia.

E’ senz’altro vero che avere più opzioni può comportare delle difficoltà e che la coppia avrà bisogno di tempo per adeguarsi a questa complessità, ma è innegabile che c’è più bellezza (in senso lato) nella complessità…

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